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Immaginiamo un continente
popolato da poche decine di migliaia di individui, organizzati in
sparuti gruppi a base famigliare e dediti alla caccia ed alla raccolta:
così si presentava l’Europa alla fine dell’ultima glaciazione, 11500
anni orsono. Queste popolazioni avevano potuto sopravvivere in un’Europa
in gran parte coperta da ghiacci grazie a una notevole specializzazione
in termini di vestiario e utensili per la vita quotidiana e per la
caccia ed il modo più giusto per immaginarceli è quello di pensare agli
odierni Eschimesi che vivono nelle distese artiche di Stati Uniti,
Canada e Russia.. E’ tuttavia indubitabile che i nostri progenitori
vivessero una vita breve e grama sotto la perenne minaccia della fame,
delle intemperie e delle bestie feroci.
Il passaggio da questo contesto sociale primitivo alle società evolute
basate sulla specializzazione, con gruppi non dediti alla produzione di
cibo (sacerdoti, guerrieri, artigiani, commercianti, ecc.) si deve in
larga misura all’agricoltura, che dalla sua patria d’origine (il vicino
oriente) fu portata in Europa da popoli che migrarono verso il nostro
continente fra 8500 e 5500 anni orsono, nel corso di una fase
sensibilmente più calda dell’attuale, il Grande optimum climatico
postglaciale.
E a questo punto è necessario un inciso per riflettere sul fatto che le fasi calde
in passato sono di norma chiamate “optimum” in quanto l’umanità ha
sempre colto in tali fasi le condizioni favorevoli allo sviluppo della
civiltà. Non si capisce dunque perché la fase calda attuale dovrebbe
rivelarsi diversa da quelle che l’hanno preceduta e cioè, oltre al
grande optimum postglaciale, l’optimum miceneo, l’optimum romano e
l’optimum medioevale.
Dopo la sua introduzione l’agricoltura non ha mai più lasciato l’Europa,
costituendo la base di quella sicurezza alimentare (cibo in quantità
sufficiente e di buona qualità) di cui oggi i cittadini europei godono.
La sicurezza alimentare non è tuttavia da dare sempre e comunque per
scontata: ad esempio nel 1740 un’annata molto fredda e piovosa produsse
200.000 morti per freddo e fame nella sola Francia mentre nel 1845-46
una malattia crittogamica (la peronospora) distrusse completamente il
raccolto di patate in Irlanda producendo oltre 1 milione di morti.
Se oggi in Europa non si soffre la fame e vi è un ottimo livello di sicurezza alimentare
lo dobbiamo alla tecnologia (di produzione agricola, di conservazione e
di trasformazione dei prodotti) che contraddistingue la nostra filiera
agro-alimentare.
E’ infatti grazie all’enorme progresso tecnologico realizzatosi nel 20° secolo
e noto come rivoluzione verde che l’agricoltura ha potuto arrivare a
produrre cibo e beni di consumo per un’umanità passata dagli 1.5
miliardi di individui del 1900 ai 6.5 miliardi del 2000. Ciò è stato
reso possibile dal progresso nella genetica (nuove varietà assai più
produttive e di qualità assi migliore rispetto alle precedenti) e nelle
agrotecniche (lavorazione del terreno, sistemi di irrigazione, chimica
per la difesa dai parassiti e dalle malerbe, fertilizzanti chimici,
sistemi di conservazione delle derrate, ecc.).
Ad esempio nel 1900 la produzione media del frumento in Italia
era di 10 q per ettaro e la granella aveva qualità scadentissime. Oggi
invece la produzione media è di circa 60 q per ettaro (6 volte tanto) e
la qualità del prodotto è incommensurabilmente più elevata, in grado
cioè di soddisfare appieno le esigenze dell’industria del pane, della
pasta e dei biscotti. Un tale incremento di resa è stato accompagnato da
una sensibile riduzione di taglia, per cui si è passati da frumenti
alti 1.80 m e che producevano moltissima paglia e poca granella a
frumenti alti meno di 1 metro, con poca paglia e molta più granella.
Parallelamente a tali fenomeni si è assistito ad una sensibile riduzione della percentuale di sottonutriti, che dal 1970 al 2010 sono passati dal 24% al 15% della popolazione mondiale.
Sappiamo
comunque che la tecnologia agro-alimentare dovrà crescere ancora
parecchio nei prossimi decenni se si vuole giungere a garantire la
sicurezza alimentare per gli esseri umani (9.5 miliardi di individui)
che popoleranno il pianeta nel 2050.
Perché raccontare tutto ciò? Semplicemente perché questi dati dimostrano
a usura il fatto che la sostenibilità è un concetto dinamico, per cui
11500 anni fa la sostenibilità in Europa era data da una popolazione di
poche decine di migliaia di eroici “morti di fame” mentre oggi si
rivela sostenibile una popolazione di 850 milioni di abitanti e con
standard di vita fra i più elevati al mondo.
Da ciò deriva a mio avviso che se dobbiamo darci un obiettivo globale per i prossimi 30 – 40 anni lo stesso non può essere che quello di diffondere all’intera umanità quel benessere che è oggi appannaggio delle aree più fortunate del pianeta (Europa in primis). Ad un tale obiettivo di benessere si oppone il mito della catastrofe incombente di cui oggi si fa portatore l’ecologismo più becero. Contro una tale visione occorre un progetto anzitutto culturale che miri a creare prospettive di sviluppo per tutta l’umanità cogliendo e valorizzando quanto di positivo sussiste nel mondo d’oggi.
Da ciò deriva a mio avviso che se dobbiamo darci un obiettivo globale per i prossimi 30 – 40 anni lo stesso non può essere che quello di diffondere all’intera umanità quel benessere che è oggi appannaggio delle aree più fortunate del pianeta (Europa in primis). Ad un tale obiettivo di benessere si oppone il mito della catastrofe incombente di cui oggi si fa portatore l’ecologismo più becero. Contro una tale visione occorre un progetto anzitutto culturale che miri a creare prospettive di sviluppo per tutta l’umanità cogliendo e valorizzando quanto di positivo sussiste nel mondo d’oggi.

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