Quando l’espressione “chilometro zero” è applicata ai cibi, alla
gastronomia, alla spesa alimentare si intende che i cibi in questione,
così come gli ingredienti e le materie prime, nel caso di alimenti
lavorati, arrivano dal luogo più vicino a quello di consumo: a zero
chilometri, insomma, da dove si compra quell’ortaggio o si fa un pasto.
L’importanza del consumo a chilometro zero è diventata all’ordine del
giorno da qualche anno: la globalizzazione delle merci, infatti, se ci
ha permesso di avere frutta e verdura fuori stagione come e quando
vogliamo, ha anche aumentato i costi (economici ed ecologici) legati a
questa disponibilità. Ogni tipo di merce, infatti, se trasportata su
gomma, su rotaia, in nave o in aereo subisce due conseguenze: se
deperibile rischia di rovinarsi, o comunque di perdere alcune sue
caratteristiche, a meno di costosi (e non sempre risolutivi) processi di
conservazione, attuati tramite il freddo o altri espedienti (come la
maturazione in stiva di alcuni frutti tropicali); inoltre il costo del
trasporto si “trasferisce” sul costo finale della merce stessa.
Oltre al costo economico, come si è detto, c’è anche un costo
ecologico: per esempio il casco di banane che viene dall’Ecuador (fatte
salve le condizioni in cui vengono trattati alcuni lavoratori di quel
Paese: esiste anche un costo sociale da non trascurare in alcuni casi)
arriva dai nostri fruttivendoli o sui banchi della grande distribuzione
con un’impronta di carbonio consistente. La “carbon footprint” comprende
anche tutta la CO2 emessa durante il trasporto dalla piantagione al
luogo di stoccaggio, da questo all’aeroporto o porto, oltre che a quella
prodotta durante il viaggio fino all’Italia e quindi al luogo di
commercio al dettaglio.
La filosofia del chilometro zero, invece, oltre al vantaggio
economico ed ecologico ne ha anche uno culturale, legato direttamente
alla scoperta dei prodotti tipici delle zone in cui vengono consumati e a
un’alimentazione che tenti di seguire ritmi più naturali.
fonte : www.naturmia.it
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