venerdì 3 agosto 2012

Profitto e felicità: proposte per un’economia sostenibile.

Profitto e felicità. Proposte per un’economia sostenibile.

Nel 1968 Bob Kennedy tenne all’università del Kansas un discorso , in cui trattò il tema dell’economia e del prodotto interno lordo. La tesi sostenuta da Kennedy riguardava il concetto di produttività, ed era (seppur non scevra di retorica) molto interessante; soprattutto alla luce degli attuali sviluppi in campo economico. Kennedy osservava che il mero prodotto interno lordo non può essere l’unico indicatore del benessere di una nazione, laddove si vada a considerare la felicità dei singoli individui. A far crescere il Pil non sono solo le aziende di biscotti o quelle di pasta, ma anche le ambulanze che raccolgono le vittime della strada, la produzione di missili e testate nucleari, di napalm. Il Prodotto Interno Lordo comprende gli introiti programmi televisivi che inneggiano alla violenza, mentre la solidità delle famiglie, la salute dei cittadini, l’integrità di chi detiene il potere non incidono minimamente sui suoi indici.
Nel 2010 il rapporto Stiglitz, stilato da una commissione nominata da Sarkozy, individuò i punti deboli della misurazione in PIL: essa misura solo la produzione, non il reddito e finisce per fornire dati fuorvianti sulla distribuzione della ricchezza. Certo esistono altri indici che i occupano di questi dati. Ma non è questo il punto: forse commettiamo uno sbaglio nel modo stesso in cui intendiamo la ricchezza di un paese.
                                                                                                                                                              
In effetti il PIL non ci dice niente di energie pulite, sanità, burocrazia, relazioni sociali. Tuttavia uno stato in cui l’aria e l’acqua sono inquinati; le persone non sono sane; dove criminalità, violenza, e razzismo sono dominanti; non è un paese sano. E questo finisce, alla lunga per ripercuotersi sull’economia. Basti pensare alla corruzione (di cui il nostro paese è un triste primatista), che gonfia le spese e rende le imprese meno efficienti. Basti pensare alle spese che gravano sul sistema sanitario a causa di un ambiente di vita e di lavoro malsano. E non possiamo nemmeno dimenticare le ripercussioni dei licenziamenti facili: è sempre il cittadino lavoratore a pagare, non una ma due volte. Chi non può lavorare, è costretto a ricorrere a forme assistenziali che gravano sulle spalle di chi ha ancora un posto di lavoro. Ciò significa: tasse, e ancora tasse.
E come possono allora le famiglie rimanere stabili, come si possono crescere i bambini, come si può pensare che i nostri anziani abbiano una vecchiaia dignitosa?
Il suggerimento, in questo momento di crisi, è di cogliere l’opportunità di cambiare modo di ragionare , e considerare non solo il concetto di profitto come qualcosa di più generale. Forse occorrerebbe considerare non solo il profitto economico, ma quello sociale e culturale.
                                                                                                                                                              
L’economia è in primo luogo una scienza della società e solo successivamente dei numeri. Negli anni sono state elaborate teorie riguardanti il concetto di felicità,sul piano economico: i fattori che la determinano sono reddito e relazione. Tuttavia pare che all’oggi si tenda a privilegiare, in maniera sbilanciata quindi, il reddito, dimenticandosi dell’importanza della relazione. Considerare l’uomo come un essere portato all’accumulo,la cui felicità sta nel possedere sempre di più, non può che essere una visione distorta della realtà. Basta provare a chiudere gli occhi, e immaginare cosa desidereremmo per le persone a noi care. Senza dubbio, vorremmo per loro il benessere economico, ma anche la salute, una famiglia felice, magari, degli amici, la possibilità di dedicarsi alle proprie passioni e ai propri svaghi. Questa è almeno la tesi sostenuta da Alberto Giovannini al Barilla Forum for Food and Nutrition tenutosi l’anno passato.
Il professor Zamagni, ordinario di Economia presso l’università di Bologna,suggerisce che le imprese debbano imparare a considerare non solo il profitto economico, ma anche le proprie responsabilità sociali.
Il fine ultimo non è la beneficenza, comunque: al contrario è la salute dell’impresa stessa e del paese in cui essa risiede. In particolari, Zamagni introduce il concetto di impresa sociale, come quell’impresa che nell’ambito dei servizi, svolge attività utili alla collettività. “Fine delle imprese sociali è creare i posti di lavoro oppure perseguire finalità di utilità sociale. L’impresa sociale produce una particolare categoria di servizi alla persona – come sanità, educazione, assistenza ai bambini, anziani. Per fare questo lavoro ci vogliono delle persone, non nuove tecnologie o robot.”
                                                                                                                                                              
Ma questo principio non è valido solo per imprese che si occupano di fini sociali. Esistono, nell’ambito dell’economia commerciale, esperimenti che, andando a migliorare gli ambienti di lavoro, incidono positivamente sulla produttività. La Pixar, ad esempio, ha creato un’università per i suoi dipendenti; Google in molti suoi uffici fornisce biciclette, scooter, computer portatili, ma soprattutto spazi dedicati al tempo libero, che vanno dal calcio balilla alla meditazione. Certo, si tratta di aziende con molti soldi e quindi enormi possibilità. Ciò che però si può ricavare da queste iniziative è un’idea di business orientato al lavoratore, dove quest’ultimo non è numero, ma persona.
Un altro esempio interessante è quello dell’economia di comunione, attiva da almeno una ventina d’anni. Si tratta di una scuola di pensiero che propone (e attua) una divisione del profitto aziendale in tre parti:una parte destinata allo sviluppo dell’impresa, un’altra alla formazione dei dipendenti, l’ultima all’aiuto agli indigenti. Non assistenzialismo, ma sviluppo inteso sia come crescita dell’azienda, ma anche come formazione umana e professionale dei suoi dipendenti. Se l’azienda crea servizi, favorisce lo sviluppo del territorio, non avrà che da guadagnarne essa stessa.
                                                                                                                                                              
Tutto ciò ci porta dritti alla nostra crisi, e soprattutto al modo in cui si sta cercando di risolverla. In effetti, il grido lanciato dalle istituzioni sembra essere “Salviamo il sistema” e così salveremo le persone. Ma in effetti, ci si concentra di più sul sistema, che sulle suddette persone: esse non sono altro che un effetto collaterale. E se occorresse invece ripensare un attimo il modo in cui ci rapportiamo all’economia, la mentalità che applichiamo alle nostre azioni? Ciò che dovremmo cercare, è forse uno sviluppo più sostenibile. La nostra economia assomiglia molto ad un anziano signore, grasso e sudato, che si ostina a mangiare dolciumi e carne rossa, e non ascolta i consigli del medico. È talmente grasso, si dice, che cadrà dalla sedia. Oserei dire, l’infarto è altrettanto vicino. Che fare, però nel concreto? Qui ovviamente, non si pretende di proporre facili soluzioni ad un problema fin troppo complesso, si vuole solo provare ad esporre un punto di vista differente, dare un suggerimento da inserire nei tanti provvedimenti salva –sistema economico.
Questa è una proposta. Aspettiamo le vostre: potrebbe essere interessante ascoltare altre idee, precisazioni, critiche, e proposte differenti. Se non ci ascoltano in alto, possiamo almeno ascoltarci tra di noi. Il passo successivo, sarà mettere in pratica.

di  Lucia Pugliese

Fonte :  www.you-ng.it

(Si ringrazia Beatrice Bittau per aver fornito l’ispirazione, le fonti e i dati per quest’articolo, con il suo bel lavoro: http://www.dissonanzegiornale.it/magazine/2012/01/18/soluzioni-alternative-per-un-sistema-economico-in-crisi/)

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