Profitto e felicità. Proposte per un’economia sostenibile.
Nel 1968 Bob Kennedy tenne
all’università del Kansas un discorso , in cui trattò il tema
dell’economia e del prodotto interno lordo. La tesi sostenuta da Kennedy
riguardava il concetto di produttività, ed era (seppur non scevra di
retorica) molto interessante; soprattutto alla luce degli attuali
sviluppi in campo economico. Kennedy osservava che il mero prodotto
interno lordo non può essere l’unico indicatore del benessere di una
nazione, laddove si vada a considerare la felicità dei singoli
individui. A far crescere il Pil non sono solo le aziende di biscotti o
quelle di pasta, ma anche le ambulanze che raccolgono le vittime della
strada, la produzione di missili e testate nucleari, di napalm. Il
Prodotto Interno Lordo comprende gli introiti programmi televisivi che
inneggiano alla violenza, mentre la solidità delle famiglie, la salute
dei cittadini, l’integrità di chi detiene il potere non incidono
minimamente sui suoi indici.
Nel 2010 il rapporto Stiglitz, stilato
da una commissione nominata da Sarkozy, individuò i punti deboli della
misurazione in PIL: essa misura solo la produzione, non il reddito e
finisce per fornire dati fuorvianti sulla distribuzione della ricchezza.
Certo esistono altri indici che i occupano di questi dati. Ma non è
questo il punto: forse commettiamo uno sbaglio nel modo stesso in cui
intendiamo la ricchezza di un paese.
In effetti il PIL non ci dice niente di
energie pulite, sanità, burocrazia, relazioni sociali. Tuttavia uno
stato in cui l’aria e l’acqua sono inquinati; le persone non sono sane;
dove criminalità, violenza, e razzismo sono dominanti; non è un paese
sano. E questo finisce, alla lunga per ripercuotersi sull’economia.
Basti pensare alla corruzione (di cui il nostro paese è un triste
primatista), che gonfia le spese e rende le imprese meno efficienti.
Basti pensare alle spese che gravano sul sistema sanitario a causa di un
ambiente di vita e di lavoro malsano. E non possiamo nemmeno
dimenticare le ripercussioni dei licenziamenti facili: è sempre il
cittadino lavoratore a pagare, non una ma due volte. Chi non può
lavorare, è costretto a ricorrere a forme assistenziali che gravano
sulle spalle di chi ha ancora un posto di lavoro. Ciò significa: tasse, e
ancora tasse.
E come possono allora le famiglie
rimanere stabili, come si possono crescere i bambini, come si può
pensare che i nostri anziani abbiano una vecchiaia dignitosa?
Il suggerimento, in questo momento di
crisi, è di cogliere l’opportunità di cambiare modo di ragionare , e
considerare non solo il concetto di profitto come qualcosa di più
generale. Forse occorrerebbe considerare non solo il profitto economico,
ma quello sociale e culturale.
L’economia è in primo luogo una scienza
della società e solo successivamente dei numeri. Negli anni sono state
elaborate teorie riguardanti il concetto di felicità,sul piano
economico: i fattori che la determinano sono reddito e relazione.
Tuttavia pare che all’oggi si tenda a privilegiare, in maniera
sbilanciata quindi, il reddito, dimenticandosi dell’importanza della
relazione. Considerare l’uomo come un essere portato all’accumulo,la cui
felicità sta nel possedere sempre di più, non può che essere una
visione distorta della realtà. Basta provare a chiudere gli occhi, e
immaginare cosa desidereremmo per le persone a noi care. Senza dubbio,
vorremmo per loro il benessere economico, ma anche la salute, una
famiglia felice, magari, degli amici, la possibilità di dedicarsi alle
proprie passioni e ai propri svaghi. Questa è almeno la tesi sostenuta
da Alberto Giovannini al Barilla Forum for Food and Nutrition tenutosi
l’anno passato.
Il professor Zamagni, ordinario di
Economia presso l’università di Bologna,suggerisce che le imprese
debbano imparare a considerare non solo il profitto economico, ma anche
le proprie responsabilità sociali.
Il fine ultimo non è la beneficenza,
comunque: al contrario è la salute dell’impresa stessa e del paese in
cui essa risiede. In particolari, Zamagni introduce il concetto di
impresa sociale, come quell’impresa che nell’ambito dei servizi, svolge
attività utili alla collettività. “Fine delle imprese sociali è creare i
posti di lavoro oppure perseguire finalità di utilità sociale.
L’impresa sociale produce una particolare categoria di servizi alla
persona – come sanità, educazione, assistenza ai bambini, anziani. Per
fare questo lavoro ci vogliono delle persone, non nuove tecnologie o
robot.”
Ma questo principio non è valido solo
per imprese che si occupano di fini sociali. Esistono, nell’ambito
dell’economia commerciale, esperimenti che, andando a migliorare gli
ambienti di lavoro, incidono positivamente sulla produttività. La Pixar,
ad esempio, ha creato un’università per i suoi dipendenti; Google in
molti suoi uffici fornisce biciclette, scooter, computer portatili, ma
soprattutto spazi dedicati al tempo libero, che vanno dal calcio balilla
alla meditazione. Certo, si tratta di aziende con molti soldi e quindi
enormi possibilità. Ciò che però si può ricavare da queste iniziative è
un’idea di business orientato al lavoratore, dove quest’ultimo non è
numero, ma persona.
Un altro esempio interessante è quello
dell’economia di comunione, attiva da almeno una ventina d’anni. Si
tratta di una scuola di pensiero che propone (e attua) una divisione del
profitto aziendale in tre parti:una parte destinata allo sviluppo
dell’impresa, un’altra alla formazione dei dipendenti, l’ultima
all’aiuto agli indigenti. Non assistenzialismo, ma sviluppo inteso sia
come crescita dell’azienda, ma anche come formazione umana e
professionale dei suoi dipendenti. Se l’azienda crea servizi, favorisce
lo sviluppo del territorio, non avrà che da guadagnarne essa stessa.
Tutto ciò ci porta dritti alla nostra
crisi, e soprattutto al modo in cui si sta cercando di risolverla. In
effetti, il grido lanciato dalle istituzioni sembra essere “Salviamo il
sistema” e così salveremo le persone. Ma in effetti, ci si concentra di
più sul sistema, che sulle suddette persone: esse non sono altro che un
effetto collaterale. E se occorresse invece ripensare un attimo il modo
in cui ci rapportiamo all’economia, la mentalità che applichiamo alle
nostre azioni? Ciò che dovremmo cercare, è forse uno sviluppo più
sostenibile. La nostra economia assomiglia molto ad un anziano signore,
grasso e sudato, che si ostina a mangiare dolciumi e carne rossa, e non
ascolta i consigli del medico. È talmente grasso, si dice, che cadrà
dalla sedia. Oserei dire, l’infarto è altrettanto vicino. Che fare, però
nel concreto? Qui ovviamente, non si pretende di proporre facili
soluzioni ad un problema fin troppo complesso, si vuole solo provare ad
esporre un punto di vista differente, dare un suggerimento da inserire
nei tanti provvedimenti salva –sistema economico.
Questa è una proposta. Aspettiamo le
vostre: potrebbe essere interessante ascoltare altre idee, precisazioni,
critiche, e proposte differenti. Se non ci ascoltano in alto, possiamo
almeno ascoltarci tra di noi. Il passo successivo, sarà mettere in
pratica.
di Lucia Pugliese
Fonte : www.you-ng.it
(Si ringrazia Beatrice Bittau per aver fornito l’ispirazione, le fonti e i dati per quest’articolo, con il suo bel lavoro: http://www.dissonanzegiornale.it/magazine/2012/01/18/soluzioni-alternative-per-un-sistema-economico-in-crisi/)
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