giovedì 9 agosto 2018

Riscaldamento globale e migrazioni: quali relazioni?

La nascita della coscienza ecologica negli anni ’70 indusse a coniare il termine di “rifugiato ambientale” e a indicare diverse cifre sulla numerosità delle loro fila, nell’ordine dei milioni già negli scritti di Jacobson (1988), Myers (1996) e Homer-Dixon (1994). Ma, come rilevò Black (2001), il problema è che dietro queste cifre a volte non vi è uno sforzo scientifico di dimostrare che le persone in oggetto abbiano migrato per motivi effettivamente connessi al riscaldamento globale. Ed è proprio questa la difficoltà di qualunque studio sulle sue conseguenze in rapporto alle migrazioni. In relazione ai rapporti tra riscaldamento globale, conflitti e migrazioni, difficoltà affini, nonché la necessità di approfondire la ricerca, sono state rilevate su questo blog, in un precedente post. Ancora oggi, data la sovraesposizione mediatica dei processi migratori verso l’Europa o gli USA, è fondamentale tornare con occhio critico sui metodi e le interpretazioni con cui gli scienziati li analizzano.
Negli ultimi anni, la letteratura su questo complesso tema, pur vasta e intricata, condivide alcuni aspetti comuni. Tra questi, la rinuncia al pregiudizio, tutto eurocentrico, che il cambiamento climatico spinga le persone ad entrare in Europa.
Gli oggetti di questi studi sono prevalentemente contesti africani (di diverso tipo, come il Sahel, il Corno d’Africa o gli altipiani dello Swaziland in Africa meridionale), del sud-est asiatico monsonico o delle isole pacifiche. Come afferma Jónsson (2008), occorre in primo luogo distinguere tra cambiamento climatico e variabilità del clima. Pur se è indubbio che i climatologi concordano sull’esistenza di un cambiamento climatico di radici antropiche, anche la naturale variabilità climatica gioca un ruolo rilevante, ed in entrambi i casi ci sono conseguenze per le persone.  Ad esempio, alcuni studi (Tucker ed altri, 1991, e Willis ed altri, 2013) hanno mostrato, in base ad indagini satellitari e biologiche, quanto i confini del Sahara possano variare per cause non solo antropiche.
Peraltro, sono estremamente utili quei lavori, come quello di Timmermann e Friedrich (2016) e questo articolo dello Smithsonian, che mettono in luce come un certo rapporto tra clima, adattamento e migrazioni sia persistito nella storia del genere Homo. Rapporto in cui anche sapiens rientra a pieno titolo, “migrando pur non diventando una specie migrante” come affermano Calzolaio e Pievani in Libertà di migrare: perché ci spostiamo da sempre ed è bene così (2016), già recensito su questo blog. Fuori da una visione strettamente emergenziale delle migrazioni, è possibile allora studiare come i contesti storicamente e geograficamente più ampi in cui gli uomini si formano possano influenzare (fino a costringere) le loro scelte.
Su questa scia, anziché rilevare focolai di emigrazione rivolta a paesi dal clima più mite, gli studi che prendo in esame si trovano a confrontarsi con le molteplici strategie adottate da chi sperimenta squilibri come condizioni sempre peggiori di coltivazione e maggiori rischi di siccità, inondazioni, salinizzazione del suolo e tempeste. È improbabile che queste persone, con il declino dell’economia famigliare, possano finanziare un costoso viaggio intercontinentale, mentre è piuttosto frequente che allontanino i membri della famiglia che possono trovare sistemazione in contesti più benestanti (come parenti e/o scuole situati in zone più resilienti al rischio o, nel caso del Pacifico, altre isole). È inoltre probabile che i membri abili al lavoro si trasferiscano in città o regioni meno dipendenti dal settore primario a cercare un lavoro salariato, salvo poter a casa tornare nel periodo del raccolto. È quanto osservato da Findley(1994) nell’articolo Does drought increase migration? (La siccità accresce le migrazioni?), in cui si mette in luce come, durante la siccità degli anni ’83-’85 in Mali, i tassi di emigrazione di alcuni villaggi della Valle del Fiume Senegal siano aumentati di poco, ma con significativo aumento di spostamento di bambini e donne e diminuzione di quelli di maschi adulti.
Figura 1: Composizione per età degli emigrati dalla Valle del Fiume Senegal, da Findley, 1994

In proposito, è fondamentale specificare che le statistiche sulle motivazioni della migrazione adoperate da Findley (e anche da Ezra e Kiros, 2001, e Vutha ed altri, 2016) derivano da questionari compilati dai “capifamiglia” della famiglia del migrante. I risultati, dunque, recano i segni del patriarcato: spicca l’assenza di donne indicate come migranti economiche, forse in ossequio al mito del marito che si sobbarca della totalità del sostentamento famigliare.
Figura 2: Motivazioni dell’emigrazione dalla Valle del Fiume Senegal, da Findley, 1994

Quando si tratta di indicare i motivi determinanti delle migrazioni con questionari, d’altronde, nessuno si riconosce come “migrante ambientale”. Ezra e Kiros (2001), nel diverso contesto dell’Africa orientale e specificamente nelle regioni dell’Etiopia settentrionale colpite dalla carestia nel 1984, rilevano che facilmente l’indicazione ricadrà su voci che fanno perno sulle ideologie famigliari dominanti, come “matrimonio” o “assistenza degli anziani”.
Cattaneo e Massetti (2015), invece, combinando i dati sull’emigrazione attuale forniti da indagini demografiche nazionali (il Ghana living standard survey del 2005-6, consultabile qui e il Nigeria general household survey del 2010-11, consultabile qui) e le proiezioni dell’IPCC sulle future concentrazioni di gas serra, sostengono che nel Ghana e nella Nigeria settentrionali, regioni rurali, il peggioramento climatico comporterà una diminuzione della propensione a migrare, forse proprio a causa della mancanza del capitale iniziale, in contesti in cui è già difficile accedere a tecnologie agricole come impianti idrici e macchine per l’aratura.
Nella sua tesi di master in climatologia, Perch-Nielsen (2004) chiarisce come, mentre la climatologia procede per indagini di natura fisico-deterministica, le teorie della migrazione non solo siano multi-paradigmatiche, ma non possano neanche ridurre del tutto l’iniziativa umana a un meccanismo.
Figura 3: Differenze tra modelli climatici e migratori secondo Perch-Nielsen, 2004

De Bruijn (2000) studiò la situazione dei gruppi di pastori nomadi Tuareg e Fulbe emigrati nel plateau di Bandiagara (Mali centrale) all’inizio del XX secolo, e a più riprese in seguito alle carestie. L’inaridirsi del suolo si accompagnava in questo caso a svariate questioni culturali, tra cui la concezione e la cura della povertà secondo le ideologie locali, la ripartizione dei ruoli economici secondo i generi, la mancanza di diritti sulla terra secondo la legge sulla proprietà nazionale, le relazioni di convivenza con gli altri gruppi etnici. Questi fattori inseriscono le migrazioni in una lunga storia di mobilità che, da più di un secolo, caratterizza le strategie di sopravvivenza di questi gruppi in ambienti aridi.
È irrinunciabile sottolineare come l’emigrazione non sia l’unico adattamento possibile a queste situazioni. I Borana, un gruppo Oromo dell’Etiopia del sud, si trovano ad affrontare siccità sempre più prolungate che hanno colpito  il loro allevamento. Migrare verso zone più miti sarebbe, tra l’altro, rischioso, a causa di tensioni militari menzionate nel documentario “Voci d’acqua dall’Etiopia” di Barberi (2011).  Pertanto, mentre la vendita progressiva del bestiame introduce tra loro l’economia di mercato, essi ricorrono agli antichi “pozzi cantanti”, cercando di sfruttare l’istruzione per facilitare l’estrazione d’acqua e le loro condizioni di vita sul luogo (nella foto a fianco, l’esempio di un pozzo borana; sono pozzi detti “cantanti” dalle cantilene che alleggeriscono il turno degli operai).
Parallele alle forme di resistenza “indigena”, vi sono molte esperienze di progetti di cooperazione internazionale per l’adattamento al cambiamento climatico, parimenti meritevoli di studio per via dell’assistenza materiale che forniscono, degli strumenti concettuali con cui operano e delle relazioni di potere in cui si inseriscono. Rimandando alla piattaforma collaborativa del portale “We Adapt” per una rassegna dei progetti di adattamento, due esempi sono i progetti di COSPEGVC. La prima (Sanfilippo, COSPE 2015) in Swaziland, regno dell’Africa meridionale, secondo la metodologia Climate Vulnerability and Capacity Analysis del centro CARE (min. 37) e invitando le assemblee dei diversi villaggi a individuare i maggiori fattori di rischio per la comunità e le possibili soluzioni; la seconda (https://www.youtube.com/watch?v=J70R7ovRKG0, min. 44) ha condotto indagini (Vutha ed altri, 2016) sulle regioni cambogiane al confine thailandese, a partire dalla comprensione dei rapporti tra inondazioni, siccità, raccolti ed emigrazione verso la Thailandia e al fine di combattere i pericoli che le migrazioni irregolari comportano.
In bilico tra ricerca e mitologia, solidarietà e sfruttamento, difficoltà operative e superficialità, la materia richiede studi di tipo qualitativo e interdisciplinare, che a una conoscenza critica della climatologia affianchino lunghi periodi di convivenza coi migranti e le loro problematiche. Chissà che ciò non porti a fertili cambi di prospettiva.
Testo di Massimo Camnasio. La tesi “Global warming and migration. Is migration an adaptive response to climate change? Some African, south-Asian, Pacific and palaeoanthropological studies trying to answer” scritta dall’autore nell’ambito dei corsi del Collegio Superiore dell’Università di Bologna – Alma Mater Studiorum, è disponibile qui.

Foto inziale: Campo profughi di Dadaab, Kenya. Ospita 370’000 persone, tra cui molti somali in fuga dalla siccità che ha colpito il Corno d’Africa. Foto scattata nel 2011 da Roberto Schmidt/AFP/Getty Images

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