La Commissione parlamentare italiana anti-contraffazione, a difesa dell’origine dei prodotti e, di conseguenza, a tutela del Made in Italy, catalizza l’attenzione sull’etichettatura degli alimenti. Peccato che l’Unione Europea agisca in senso contrario.
L’Onorevole Colomba Mongiello – vice presidente della Commisione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della contraffazione – dichiara che “l’etichettatura sull’origine geografica dei prodotti è il principale strumento di contrasto dell’italian sounding, ma l’Ue fa finta di non saperlo”. E infatti, a Bruxelles si parla di abolire le norme nazionali sull’effettiva origine e sul luogo di origine di un determinato alimento. Tale abolizione agevolerebbe “la concorrenza sleale di chi vende per italiani prodotti coltivati o trasformati in tutt’altra parte d’Europa o del mondo”. In questo modo il lavoro di migliaia di imprese viene vanificato e all’economia italiana vengono sottratti 60 miliardi di euro.
Suona italiano, ma non lo è. Questo significa italian soundig, fenomeno che colpisce i nostri prodotti più rappresentativi e condiziona le aspettative dei consumatori. Mentre io posso intuire che un Parma Salami o una Mortadella Siciliana, non siano prodotti tipici della mia nazione, uno straniero potrebbe credere che un Pesto ligure o un Pecorino possano provenire dalla California o dalla Cina, convinto siano comunque italiani.
Secondo un sondaggio online del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, oltre il 96% dei consumatori ha dichiarato che è molto importante che sull’etichetta sia scritta in modo chiaro e leggibile l’origine dell’alimento e per l’84% è fondamentale ci sia il luogo in cui è avvenuto il processo di trasformazione. È naturale che un’italiano controlli con più metodo un prodotto teoricamente italiano, ma uno straniero farà lo stesso? A quanto pare no, viste le cifre che il nostro mercato perde in campo alimentare.
Noi che ospitiamo Expo 2015, con l’appropriato e stereotipato tema del buon cibo, ci facciamo fregare da etichette non trasparenti. Basterebbe fossero chiare ed esaustive, che indichino l’origine e il luogo di lavorazione dei prodotti agroalimentari. In questo modo si prevengono le frodi e la delusione di chi acquista un determinato alimento convinto che sia ciò che realmente non è. C’è da dire che in Italia il sistema di tracciabilità dei prodotti alimentari non è all’avanguardia – c’è qualcosa che lo è? -, ma anche la normativa riguardo la loro importazione non è molto chiara. L’articolo 24 del Codice doganale comunitario del 1992 dichiara che “le merci alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione sostanziale”. Tradotto: se si importa del mais dall’Est Europa e lo si lavora per ottenere della farina, questa è Made in Italy. La truffa non solo è fuori, ma anche dentro casa.
Forse per via del vittimismo che ci, ma non senza ragioni, affermare che “le trattative comunitarie sono troppo farraginose rispetto alle evoluzioni produttive e dei mercati” e che siccome il tema dell’etichettatura d’origine riguarda la minoranza dei Paesi comunitari, Bruxelles lo sottovaluta: è corretto.
Tutto si può dire dell’Italia, tranne che non badi a ciò che mangia e alla cucina. Portateci via questa certezza e potremmo avere crisi d’identità. Oltre al fatto che sottrarci profitti che ci spettano è come sparare sulla Croce Rossa e truffarci tra connazionali è come tirarsi la zappa sui piedi.
Erika Dellavedova per 9ArtCorsoComo
Nessun commento:
Posta un commento