martedì 7 agosto 2012

Gli orti in città. Quando un “vuoto urbano” si riempie di nuovo senso

Una funzione urbana tradizionale non solo recuperata e rilanciata, ma che assurge a nuovi inediti ruoli nella prospettiva della città sostenibile. Un saggio inedito scritto per Mall
 
Sergio Caldaretti (“Vuoti a rendere”, in
Eddyburg, 16 febbraio 2011) sottolinea come, nel lessico urbanistico, dietro l’uso del termine “vuoto urbano” si nasconda un modo peculiare di vedere i fatti urbani, un punto di vista che tende ad assegnare ad ogni superficie di suolo una potenzialità insediativa. Gli orti urbani, e più in generale, le pratiche legate all’appropriazione sociale dei “vuoti” all’interno della città consolidata si inquadrano invece in un’ottica che da una parte mira a riformulare il concetto stesso di vuoto, e di conseguenza di suolo non edificato, considerandolo non in termini parziali, ma nella sua “globalità di senso”, e dall’altra è tesa a proporne un diverso paradigma, capace di contrastare un carattere consolidato della nostra cultura tendente ad associare al suolo la funzione di mero elemento passivo, di inerte produttore di rendita.

“Quando Michelle Obama ha piantato il suo orto alla Casa Bianca subito dopo l’insediamento del marito, ha compiuto un atto politico importante” (Petrini C.,
Terra madre, Giunti – Slow Food Editore, Firenze, 2009), tutta la stampa internazionale ha dato grande centralità a questo gesto, sicuramente velato di retorica come qualcuno ha sostenuto. Ma tutti i commentatori hanno, di fatto, concordato sulla sua centralità in quanto pratica che, sostenendo la funzione politica e sociale dell’orto in città, risulta capace di i) riconoscere la funzione ancestrale della terra che è quella di generare; ii) richiamare le azioni di risanamento ecologico e miglioramento estetico incidendo sulla percezione dell’ambiente e del paesaggio; iii) favorire la cura della terra, anche attraverso la riappropriazione della “identità” dei luoghi; iv) incidere, infine, sull’immaginario collettivo per decolonizzarlo dall’idea di sviluppo inteso come crescita indiscriminata della mercificazione attraverso la promozione della cosiddetta economia di sussistenza; tutte considerazioni che si rifanno alla teoria del cosiddetto “agricivismo”, secondo il fortunato ossimoro coniato dall’urbanista Richard Ingersoll (Ingersoll R., Sprawltown, Meltemi, Roma, 2004).

Anche nelle più grandi città italiane proliferano spontanee ed auto-organizzate iniziative del genere. Recentemente l’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) gli ha dedicato, insieme a Italia Nostra e Coldiretti, un convegno dal titolo “Orti urbani, una realtà nazionale” (30 ottobre 2010, Roma) ed il National Geographic Italia un approfondimento (Ancona K., Formica F., “Gli orti urbani”, in
National Geographic Italia, 29 ottobre 2010), in relazione alle tre realtà metropolitane di Roma, di Milano e di Torino, ed al territorio della Campania.

Tuttavia la presenza di pratiche legate alle coltivazioni orticole nelle aree urbane non è un fenomeno recente; più volte è stato evidenziato come la coltivazione di orti a ridosso delle mura cittadine fosse una costante, ad esempio, del paesaggio medioevale italiano (Cardini F., Miglio M.,
Nostalgia del paradiso. Il giardino medioevale, Laterza, Roma, 2002). Ciò nonostante, la cultura urbanistica inizia a confrontarsi con questo tema solo alla fine dell’ottocento, ed essenzialmente in relazione ad isolate iniziative di alcuni industriali illuminati. Gli orti urbani sono così destinati a caratterizzare il tessuto morfologico di molti “villaggi fabbrica”, come nel caso del centro abitato di Crespi D’adda (1870), progettato ex novo a “completamento” dell’omonimo opificio tessile (Sica P., Storia dell’urbanistica. L’Ottocento, Laterza, Bari-Roma, 1977).

Poi il “movimento moderno” che, in Italia ed in tutto il resto d’Europa, ha alimentato il mito secondo cui la città potesse vivere, e soprattutto espandersi, prescindendo da ogni rapporto con l’agricoltura. Discorso portato alle estreme conseguenze, con la soluzione “riduttiva” e “strumentale” del verde pubblico attrezzato catechizzata nella Carta di Atene (1931) da Le Corbusier (Merlo V., “La riscoperta dell’agricoltura urbana”, in Barberis C., a cura di,
La rivincita delle campagne, Donzelli, Roma, 2009). Nello stesso periodo, e soprattutto durante il secondo conflitto mondiale, nell’Italia fascista si diffondono i cosiddetti “orticelli di guerra”, porzioni di ricavate nei giardini pubblici (ma anche privati) e sul suolo non edificato delle principali città italiane.

Dopo questa breve parentesi, che dura per tutti gli anni della ricostruzione, con il boom economico il fenomeno subisce un’impennata improvvisa: il suolo non edificato diventa “pertinenza” dell’abitazione, quello interstiziale nelle zone popolari della città compatta, ma soprattutto quello ampiamente disponibile nelle estreme periferie informali che si formano rapidamente con l’afflusso degli immigrati. Gli uni e gli altri costituiscono fonte di risorse agroalimentari utili all’immigrato diventato operaio nelle grandi fabbriche o costretto a vivere di espedienti nell’attesa di un lavoro più stabile e dignitoso. Accanto alla funzione di integrazione del reddito, si affina con queste pratiche quella legata alla volontà di recuperare valori ed esperienze della terra di origine. Così le città, o meglio le loro periferie caratterizzate essenzialmente dall’abusivismo, si riempiono di piccoli appezzamenti coltivati ad orto, lungo i corsi d’acqua, i tracciati viari e ferroviari, le antiche mura, i resti degli acquedotti romani; o, più semplicemente, nei brani di campagna che si intrecciano con gli addensamenti insediativi.


A partire dagli anni ’80 del secolo scorso il tema, in virtù di sollecitazioni e riflessioni provenienti anche dall’ambito disciplinare dell’urbanistica, subisce una drastica evoluzione, ed inizia ad essere oggetto di discipline e regolamenti, soprattutto a livello comunale: dalla prima esperienza nel Comune di Modena (1980) si passa a Milano, Torino e Salerno (AA.VV.,
Orti urbani una risorsa, Franco Angeli, Milano, 1982). Ed al contempo da una visione “abusiva” dell’orto urbano ad una di tipo “sociale”. Cosicché riportare all’interno della città il verde produttivo-agricolo degli orti, non è più considerato solo un mero elemento di ostacolo al degrado degli spazi interstiziali del costruito, ma un obiettivo concreto perseguibile dalle politiche urbane (“La riscoperta dell’agricoltura urbana” cit.).

In questa ottica le pratiche collegate all’utilizzo agroalimentare del suolo urbano rappresentano utili strumenti di formazione sociale: la sperimentazione di una gestione condivisa del suolo è in grado di far maturare nelle comunità insediate l’idea di un suo valore “altro”; e di coltivare assieme a ciò la consapevolezza che la terra e il cibo sono beni comuni. Ma, più in generale, per affermare questo occorre andare oltre gli statuti disciplinari dell’urbanistica, che affiancando le visioni “globali” continuano a riposare su una concezione del suolo merce, sterile supporto per il mercato; occorre dare ad un vuoto urbano all’interno del centro storico, a dei lotti liberi in una zona di completamento, alle aree incolte periurbane lo stesso “senso” di un uliveto, una vigna, un orto, un campo a seminativo, un bosco, una montagna.


Non ci si può più occupare dei “vuoti urbani” essenzialmente in termini di controllo dell’espansione urbana, come nei tanti contributi volti alla pianificazione e progettazione dello spazio periurbano. Perché questo approccio è riflesso di un lungo processo teso rappresentare ogni brano di terra “in negativo” rispetto alla città, come una parte di suolo che ancora non è stata edificata; e di conseguenza in virtù di questo modo di vedere le cose il suolo è stato trattato essenzialmente come il mezzo, lo strumento capace di garantire di volta in volta il “controllo urbano”, o al contrario la “speculazione”. Oggi è necessario ribaltare l’ottica, puntando a pianificare e progettare l’insediamento proprio a partire da questi “brani di terra”, che devono essere considerati non in termini parziali, ma appunto nella loro “globalità di senso”.


Di conseguenza, ci dobbiamo occupare di diversi “brani di terra”: delle aree dimesse e degli spazi pubblici urbani, degli spazi verdi interstiziali negli aggregati urbani, dei brandelli agricoli periurbani, della campagna
terra nullius.
Ciò permette a queste esperienze, che isolate potrebbero apparire deboli, di travalicare i propri confini, di fornire alla popolazione un esempio positivo di promozione di politiche urbane virtuose, riconsegnando alle comunità insediate capacità creativa, di progetto, e di autodeterminazione.

(*) Giuseppe Caridi è architetto, dottore di ricerca in “Pianificazione e progettazione della città mediterranea”

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